Il calendario Pirelli 2013 di Steve Mccurry segna una differenza. Bella.

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La più grande delle magie visive non è una stranezza ultraterrena e stregonesca, ma un’illuminazione del quotidiano, quando le cose familiari sembrano meravigliose. Strade e muri di città e cieli, in un sorprendente deragliamento, cominciano ad assumere un’irrazionalità di sogno. Il fatto stesso di riconoscere certi oggetti – il cane, la sedia, la finestra – rende gli altri elementi ancora più stupefacenti: che cos’è quella vampata di luce, e cosa sta facendo quella donna su quell’uscio? Allettante ed evocativa, trasudante di colori, la visione prende forza dalla presenza visibile di una figura di potere – nel caso di queste fotografie, la bella donna che le domina come una sacerdotessa dei Tropici.

In questa epifania di sorpresa e piacere, una simile bellezza è sempre invitante. È impossibile vedere le fotografie di Rio e della sua gente realizzate da Steve McCurry e non desiderare di essere lì. La magia di Rio, la città dei forti contrasti, è qualcosa di palpabile, una luminosità confortante che in gran parte delle città è rara. Ma a Rio è una componente della sua stessa identità, della sua vita quotidiana, qualcosa di gioioso così come, a volte, evocativo di una sorta di malinconia. Il colore intenso può ispirare gioia, o terrore, o desiderio, o addirittura pathos o un senso quasi di sacralità.

La Rio qui ritratta suggerisce la storia del Brasile, un Paese trasformato – colonizzato, saccheggiato e ripopolato fino a esplodere di intensità europee e africane e di indigene strida piumate. Le foto mostrano una cultura nazionale di impulsi e improvvisazioni – un antropologo la potrebbe definire sincretica, una fusione di culture, un popolo che prende possesso di rituali o credenze diverse e li fa propri. E anche questo è magia. La musica e la danza e perfino i graffiti contribuiscono alla trasformazione; il tocco umano sui muri dipinti, l’abbigliamento informale rappresentano la rivendicazione, da parte dei Carioca, delle loro esistenze e dei loro quartieri, un modo di trasformare i loro muri in murali e addirittura i loro corpi in oggetti d’arte, come culturisti e danzatori.

La capoeira, qui mostrata come un vigoroso capitombolo, è specificamente brasiliana e vecchia di secoli, e combina movimento e musica in un modo che è tanto un’estetica quanto un sistema di combattimento, come una magia in azione: un’arte marziale, a volte improvvisata e ricercata. E i graffiti non sono, come accade in certe città, vandalismo, bensì accrescimento, murali o maquillage su una parete, una strada, un androne, una facciata.

Queste immagini mostrano un mondo immaginato di fresco, esemplificato dallo scatto dall’alto di una Rio vista come la superficie del nostro pianeta in piena creazione, i mari che si ritraggono in polle di luce rosata dalle montagne lontane a rivelare una città alla nascita, le luci che ammiccano dalla costa, le montagne che riflettono gli alti palazzi, una città in cui la gente sembra più felice all’aperto, in strada, nelle nicchie e nei mercati, sui tetti delle case.

Ci sono immagini di abbondanza – c’è tanto di tutto, cibo, frutta, colori, musica; c’è anche un’abbondanza di luce, ma è una luce a volte capricciosa e rivelatrice. La ragazzina alla bancarella del mercato che si tocca ansiosamente la testa si para davanti a una pila impressionante di peperoncini multicolori. È sola, ma lo è anche gran parte della gente in città, specialmente la donna che si allontana solitaria lungo l’acquedotto degli Arcos de Lapa e sembra invitarci a seguirla. È un’ombra rivelatrice; in queste ombre c’è altrettanta vita che nella nuda luce.

E ogni immagine di questa sequenza è animata da un dettaglio rivelatore, che sia un gatto che batte in ritirata, un cane ossuto, un’ombra; lo sguardo ansioso o il gesto di umana goffaggine che riconosciamo facilmente e con cui possiamo metterci in relazione. Le immagini sono pervase di fisicità; l’elemento umano è potente. Questi sono esseri umani veri in un luogo vero, e trasudano una gioiosa sicurezza. Al livello più semplice, la gravidanza di una donna è rivelata in uno scatto spoglio e sereno. Al più complesso, si veda la foto della modella sulla soglia della casa, la bandiera brasiliana dipinta sul muro, la donna alla finestra che distoglie lo sguardo, la sezione del ritratto murale di una bambina triste, un vero albero, una strada bagnata. 

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Paul Theroux intervista STEVE McCURRY

Paul Theroux: Quali sono state le tue impressioni di Rio, le cose che hai amato e che hai voluto enfatizzare?

Steve McCurry: Ci ero stato già due volte in passato, durante il Carnevale: era molto divertente, c’era gente che ballava dappertutto, una grande sensualità e un gran caldo. In un’altra occasione mi trovavo sulla collina sopra la città che si vede nel calendario e per caso, nella capoeira, ho ritrovato quello stesso clima. La prima volta che la vidi, Rio mi parve mitica, con le sue montagne, le sue spiagge e una luce incredibile. È uno dei paesaggi urbani più belli del mondo. Non c’è nulla che le somigli, nemmeno alla lontana.

C’è un particolare quartiere chiamato Lapa che è un luogo molto vivace, con le strade piene di gente anche di notte, una quantità di alberghetti cadenti e di graffiti. È adiacente il quartiere di Santa Teresa, con le sue vecchie linee tranviarie. Quel luogo mi è sembrato molto più interessante delle spiagge e di Copacabana. I quartieri più piccoli mi parevano più interessanti dal punto di vista visivo.

In che senso interessanti?

La qualità della luce, l’atmosfera, il mistero: tutte cose che di notte erano più accentuate. Ho sempre gravitato verso situazioni in cui l’illuminazione ha una certa atmosfera, in cui la luce scarseggia. Di rado fotografo in piena luce o durante il giorno. Mi piacciono le ombre, le situazioni che creano sottili contrasti di colori, dove l’illuminazione proviene dai negozi, dalle case, dai lampioni.

Non è stato strano lavorare con delle modelle?

Alcune delle donne sono modelle, ma il lavoro riguardava le loro opere filantropiche, per cui non le stavo fotografando nude. Lo scopo non era mostrare i loro corpi o la loro sessualità. Si possono scattare foto sexy dappertutto, anche nella lobby di un albergo. Per quello che stavo cercando di fare avevo bisogno di un’ambientazione, di uno sfondo, di un’atmosfera. Stavo creando una scena: un primo piano, uno sfondo, il senso di un luogo. Cos’è che rende Rio quella che è? I graffiti, i bar, le bottiglierie, la luce incredibile, la forma dell’acquedotto, il quartiere, la sagoma della ragazza sexy che cammina sull’acquedotto. Lì c’è una gran vita di strada, bar che si riversano nelle vi
e, e questo mi piaceva.

E ti piaceva anche il momento del giorno?

Sì. Prendi lo scatto della modella seduta sulla soglia della casa con il graffito della bandiera brasiliana e la donna alla finestra. È una scena completa. Quando ho visto quella bandiera ho pensato che sarebbe stato bello giocare con i suoi colori, con il verde e il giallo dominanti, e quello è lo schema cromatico che emerge. Quella sera pioveva a dirotto, e la pioggia creava una magnifica patina sulla strada. Ho cominciato a scattare intorno alle 8 e sono andato avanti per circa quattro ore, perché avevamo bisogno di teloni per ripararci dalla pioggia. Avevo la modella per l’intera giornata, ma ho voluto aspettare la sera. Lei è una top model, ma è seduta nel vano di una piccola porta, con famiglie e bambini che la sfiorano con i loro impermeabili fradici, e probabilmente sta pensando: “In cosa sono andata a cacciarmi?” Io scattavo dal lato opposto della strada, a una quindicina di metri di distanza, e lei non poteva vedermi. Ero coperto da un telo, e c’era tutta questa gente che andava e veniva. Mi è sembrato bellissimo, specialmente quella donna affacciata alla finestra.

Cosa c’è di diverso nel fotografare soggetti che posano per te?

La mia speranza, la mia aspettativa era quella di fotografare queste modelle come persone vere. Sono professioniste, il loro mestiere è posare, non possono farne a meno. Cominciano subito a fare i loro movimenti. Nella moda devono mostrare al meglio gli abiti che portano, e così quello che fanno è assumere un look particolare, le mani dietro la testa, per drammatizzare ciò che indossano. Ma io stavo cercando di fotografarle come persone reali, senza messinscene. Questa era la prima considerazione. D’altro canto, è quello che fanno: si esibiscono. E così mi sono detto: lasciamoglielo fare, sono belle, allegre, sanno come presentarsi. Nella maggior parte dei casi l’idea era fotografarle mentre facevano il loro mestiere, ma cercando di sdrammatizzare un po’ tutto: le pose, i movimenti, le sottolineature, per renderle più reali.

Se sei un fotografo di strada, quando ritrai le persone vuoi ottenere un ventaglio di emozioni. È così che ti descriveresti? Un “fotografo di strada”?

Sì, direi che sono un fotografo di strada che ritrae “situazioni trovate”, e il modo migliore di farlo è camminare per le strade e catturare la vita nel momento in cui accade, per caso.

Quali problemi hai incontrato a Rio?

Dicevano che ci sarebbero stati problemi di sicurezza, ma la nostra era una grossa troupe. Siamo rimasti due giorni in una favela, ma non abbiamo mai avuto guai. Tre delle favelas in cui sono stato erano talmente tranquille che non avevamo nessuna scorta, niente armi: eravamo liberi, e io mi sentivo al sicuro. Volevo fare i miei scatti in una favela come se fossi in uno slum indiano: un luogo umido, affollato, buio, pieno di gente per le strade. Era quello che mi attirava.

E la folla?

È tutta la vita che mi succede. In India appena ti fermi si forma una folla, ma la cosa non mi disturba. Lavorare in strada, in mezzo a tutta quella confusione, non mi dà alcun fastidio. È un po’ come essere nel mezzo di una tempesta, ma protetto da un bozzolo. La cosa difficile è che è sempre una sfida contro il tempo: cominci a scattare e tutto deve risolversi nello spazio di due ore. È un mondo di acconciature, di trucco e di location, e stai lavorando con una modella che magari ha un volo da prendere. Sicché tutti gli elementi devono andare al loro posto molto in fretta.

Ma la visione dev’essere la tua. Devi essere fedele alla tua voce interiore. È tutto intuitivo, tutto basato sull’istinto, e se ti smarrisci sei finito. Stai girando per un villaggio o una città, e il dubbio è: vado a sinistra oppure a destra? Ma segui il tuo intuito. Stai esplorando, e devi farlo a tuo modo, dettando tu i termini. Alcune di quelle strade saranno dei vicoli ciechi, ma alla fine incapperai in qualcosa, nel caso fortunato, e a quel punto avrai trovato le tue situazioni migliori.

L’immagine della piccola venditrice di peperoni è toccante…

È una ragazzina che ho incontrato per caso, non una modella. Io faccio un gran numero di scatti. Sono alla ricerca del momento di passaggio, quello in cui l’immagine rivela una tensione. Quando i soggetti umani sono in qualche modo rilassati. Se si stanno muovendo, voglio che la fotografia esprima un senso di movimento, che non sia statica. Voglio catturare il modo in cui le persone si muovono, o il modo in cui assumono questa o quella posizione, le infinite varianti del processo. Voglio qualcosa che sia il più possibile naturale e reale e autentico. Di quella ragazza avrò fatto una cinquantina di scatti.

Sei noto per esserti recato a piedi in Afghanistan, nel 1979. Cosa ti spinse a fare un viaggio tanto pericoloso?

Mi sembrava una cosa importante da fare, un’avventura, una grande occasione per vedere come si viveva in una remota zona dell’Hindu Kush. Mi interessava anche la popolazione Kalash nei pressi di Chitral, in una valle isolata circa due giorni di cammino a nord di Peshawar. Non sono musulmani, li si potrebbe definire pagani, e trascorsi qualche tempo con loro. Vivevano nelle colline, e probabilmente sono ancora lì che resistono. Ormai ne saranno rimaste poche migliaia. Nel primo viaggio in Afghanistan rimasi un mese. Poi ci tornai in agosto e feci altre foto, questa volta nel Kunar e nel Nuristan, spostandomi sempre a piedi. Allora gli abitanti vestivano in modo più tradizionale di adesso, e come armi avevano soltanto vecchi fucili Enfield.

Qual è stato il tuo primo grande successo come fotografo?

Era il 1980 quando le foto dell’Afghanistan cominciarono a uscire su Geo, Stern e Paris Match. Immagini degli afghani che combattevano contro il loro stesso governo. L’American Photographer pubblicò un ampio servizio sui miei ritratti afghani, e il New York Times ne riprese alcuni e li pubblicò in prima pagina. Fu un bel momento. Le foto erano vecchie di qualche mese, ma erano storiche.