Woody Allen, e i narcisi sfocati

Chissà chi ricorda "Harry a pezzi". Per i fanatici di Woody Allen come me, una piccola pietra miliare. Anche perché ben descrive l’attitudine alla scrittura, e la nevrosi della professione dello scrittore…

Ordunque, in "Harry a pezzi" le vicende del protagonista sono intervallate dai racconti dei propri libri. In uno di questi un attore che sta girando un film, ad un tratto, "esce dal fuoco", inizia a "sfocarsi", perde i suoi caratteri distintivi, e i suoi contorni definiti, e viene circondato dalla nebbia della miopia di un occhio che non riesce a catturare  i confini delle cose.

Una tragedia, insomma, non poter esser visti bene, per quello che si è. Una tragedia essere diversi, e quasi mostruosi, solo perché le persone non riescono a vedere "bene" i tuoi tratti. Una tragedia fare per professione l’attore, e non essere messo a fuoco da una telecamera.

La paura di scomparire – ad alcuni capita la paura di comparire troppo, ad altri di vedere i buchi nei maglioni, li chiamano autistici ma non è mica detto che lo siano – è una fantasia narcisistica degli autori in generale, credo, e forse è il terrore per antonomasia del narcisista. Di chi – cioè – mette se stesso molto molto prima di tutti gli altri. E che se poi è autore, mette tutto quello che gli rimane nell’arte, e non nella vita.

In "Harry a pezzi" l’autore (o il regista etc etc…) è grande nell’arte, nel cinema, nella scrittura, mentre nella vita sarà un disastro. A me questo fa paura, mica scomparire. Perché in effetti potrei confermare – conoscendo autori, scrittori, registi – la loro incapacità a relazionarsi alla pari con gli altri , e la loro necessità di stare "sopra le regole". Cosa che, sopratutto nei rapporti amorosi, fa uscire dai gangheri i rispettivi compagni.

Ma se dunque per fare l’autore o l’artista bisogna essere un po’ stronzi e narcisi e incapaci di vivere con gli altri alla pari, uno cheinvece  volesse essere anche una brava persona e volesse fare il pittore, per esempio, oggi sarebbe credibile?

  • Gianni |

    Allen è tra i pochi che sanno parlare, forse è per questo che i suoi film quasi mai vengono trasmessi alle 20:30 in tv. Anzi, mai proprio da Rai e Mediaset. Mi consolo quindi pure io,…e resto come Allen, stronzo e narciso.
    http://www.solitoignoto.com/046.htm
    http://www.solitoignoto.com

  • Cristina |

    Ciao a tutti… Beh, l’impressione è che all’artista le persone riconoscano, un po’ come ai bimbi, il permesso o addirittura la necessità di fare i capricci… Quindi, anche se non la penso come Paola perchè ho una predilezione nota per i mattacchioni, un poco mi spiace, dei capricci, e un poco mi piace…

  • Enrico Neiretti |

    Ma l’arte cos’è? E’ la sensibilità che trova un linguaggio capace di esprimerla, è la capacità di gettare lo sguardo oltre i limiti angusti del quotidiano, oppure è tecnica sublime, o ancora dimensione snobistica, luogo per eletti?
    Se è sensibilità, se è sguardo, non ha senso alcuno tracciare una divisione tra arte e quotidianità. Si tratta di un modo di essere che porta con sé pensieri, timori, visioni. Ma è un modo di essere che va al di là dell’espressione artistica compiuta, e abbraccia tutti i percorsi esistenziali che fanno della ricerca dell’espressione la propria stella polare.
    E allora la paura di mostrarsi sfocati è semplicemente il corollario del bisogno di mostrare qualcosa di autentico di sé.
    Se invece l’arte è semplicemente tecnica, o peggio ancora luogo, allora è chiaro che la dimensione autoreferenziale diventa preponderante, e porta con sé nevrosi, imposture, narcisismi. Ma questa è dimensione sterile, l’aggettivo artistico è un’etichetta, la riduzione dell’artista a “ruolo” lo rende simile ai milioni di vacui professionisti dell’immagine, a schiere di vuote maschere incapaci di soggettività.
    La divisione non è tra “artisti” e “normali” –sarebbe infantile e banalizzante portarla avanti- ma tra personalità e ruoli, tra l’irrinunciabile e intensa comunicazione di sé stessi, e l’abusata e nevrotica ostentazione della propria funzione.

  • Paolo |

    La differenza di riuscire a comunicare nell’arte e nella vita di tutti i giorni penso sia facile da capire. Entrambe sono forme di comunicazione ma diverse, con dei paletti diversi. Una viene utilizzata ed è conosciuta solo da gli artisti, registi, etc, l’altra da tutte o quasi tutte le persone che la utilizzano per vivere. L’arte è come una lingua bellissima che tutti possono capire (infatti veniva utilizzata nel passato per indottrinare gli ignoranti) ma che pochi possono parlare. E quando la senti ti viene da pensare….ma perche non è venuta ha me quest’idea?! era così facile!!! Come per esempio la scena della dogana in “Non ci resta che piangere”
    Poi però gli artisti continuano a utilizzare quei paletti (o limiti)anche nei momenti sbagliati della vita quotidiana quando il sistema di comunicazione è quello che utilizzano tutti gli esseri normali. Ed ecco i narcisisti che come un regista si credono direttori anche in salotto o gli autistici.

  • Enrico Neiretti |

    E se la paura di scomparire non fosse semplicemente una nevrosi narcisistica di autori, registi, artisti in genere, ma invece il sintomo di un malessere più grande, quello della riduzione della nostra personalità a ruolo che finisce per “mangiarsi” il nostro “io” più autentico, lasciando solo un profilo prevedibile e banale?
    E se, quando parliamo, interagiamo, ci confrontiamo con gli altri, fossimo costretti a lasciare fuori dalle frasi, dai concetti, dalle analisi, una parte importante di noi, fino a vederci poi sfocati, sbiaditi, confusi?
    Forse è l’eccesivo peso dato ai ruoli sociali, e la speculare banalizzazione dei rapporti umani, a creare questa paura.

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