Pubblicità, design o manifesto?

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Tra poco vedrete un manifesto molto simile in giro per l’Italia. Perché abbiamo bisogno di copiare? Perché all’estero anche le pubblicità dei giornali cartacei sono molto, ma di molto più belle delle nostre… E forse è anche per questo, che i giovani non ci leggono…

  • maikmidlooks |

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    maik midlooks

  • Floppyedurelp |

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  • Inarbargili |

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    Best Regards

    Nelson

  • candida riva |

    Ma quali sono ste cose”CARINE”? chi e’ che stabilisce quando una cosa e’ carina o quando non non lo e’… Se va di moda lo e’… se non va di moda e’ uno schifoooooooo????

    non e’ forse meglio lavorare sulle cose sincere e vere ..senza tenere conto quello che va di moda ???? e’ piu’ rschioso …. ok mmmma qualcuno deve pur rischiare, anche a costo di diventare impopolare….. ahh aah aah …..

  • Astarte |

    Ciao Cristina.

    Intanto mi scuso per un “distinquere” che m’è scappato nel post precedente. Una g al posto della q ci sarebbe stata benissimo. Per quanto riguarda Astarte è un nick che ormai mi porto dietro da tempo. Niente dea fenicia, è un omaggio all’ultima storia, purtroppo incompiuta, disegnata da Andrea Pazienza, e il protagonista, Astarte appunto, era uno dei cani da guerra di Annibale Barca.

    Effettivamente la domanda che poni in chiusura è LA domanda giusta, me la sono posta diverse volte (ce la siamo, direi a questo punto, visto che il malessere non è isolato e già lo si sapeva), il problema è trovare pure LA risposta giusta.

    Rifiutare i lavori che non ci permettono autonomia, o almeno quelli nei quali l’intervento del cliente è direttamente a suo discapito?

    Oppure lavorare solo per quei progetti che ci entusiasmano e nei quali riconosciamo la possibilità di fare qualcosa di diverso?

    O magari mollare tutto e aprire un chiosco di grattachecca alle Seychelles? (Sì, sì, sì!)

    È né più né meno come dice il tuo amico. Attacca l’asino dove vuole il padrone, insomma. Solo che pensare allo stipendio, che è ovviamente importante, e fregarsene del prodotto finale diventa controproducente per entrambi, cliente e grafico o pubblicitario. È chiaro che se devi fare una cosa che non ti piace, non ti riuscirà bene. Ti salvi con un po’ di mestiere, ma alla fine il prodotto sarà, per non dire brutto, almeno anonimo, senza personalità. Quando questo diventa non dico il quotidiano, ma una buona maggioranza del tuo lavoro ecco che termina anche la voglia di trovare altri segni, altri percorsi (già duramente provata dal lavoro quotidiano che spesso non ti consente di provare, di esercitarti in qualcosa di nuovo), per cui si determina un appiattimento della tua produzione.

    L’ignoranza del cliente è giustificabile, ad ognuno il suo, insomma. Quello che soffro è l’incapacità di riconoscerla come tale. O meglio, l’incapacità, da parte di una certa imprenditoria, di “(af)fidarsi” a qualcuno (che sia il grafico o altro) che si è chiamato per risolvere un problema. Forse è una caratteristica italiana, però quando chiamo l’idraulico o l’elettricista (io sono uno di quelli che ancora crede al miracolo, quando clicca sul pulsante e si accende la luce, non sono un McGyver della casa insomma) mi limito ad esporre il problema, poi aspetto che me lo risolva con i suoi tempi e i suoi modi. Ci sarebbe da dire anche con i suoi costi, che non contratto e mi limito a pagare una volta ripresomi dall’ictus, mentre per il nostro lavoro è un po’ diverso, l’ambientazione del redde rationem economico è più un incrocio tra un suk mediorientale e mezzogiorno di fuoco.

    Io ho iniziato a lavorare prima che i computer diventassero lo strumento principale del mestiere. Formazione classica, quindi. Il grafico era una persona dotata di una certa manualità oltre che della voglia di fare quel mestiere. Era molto vicino ad un illustratore, spesso le due professioni si accostavano e si fondevano. Una caratteristica, questa, che è riscontrabile ad esempio nella produzione di altri paesi (molto in quelli anglosassoni ma anche nell’est europeo, tradizionalmente legati a certe espressioni tra l’incisione, la pittura e la grafica, come si può vedere anche nella vasta produzione di cortometraggi animati, una vera e propria scuola come quella italiana degli anni ’50/’70, che ormai è defunta, a parte qualche spunto isolato), mentre nel nostro ormai impera la fotografia o il montaggio fotografico avvicinato al testo, spesso nemmeno tanto omogeneamente.

    L’avvento delle macchine infernali (sia detto a scanso di equivoci che io le adoro senza mezzi termini) ha contribuito a generalizzare il mercato. Anche un pessimo arruffone diventava in grado di sfornare un prodotto corretto nella maggior parte dei casi, almeno dal punto di vista dell’esecutivo. Ovviamente la qualità creativa era indipendente da questo, se c’era ne usciva nobilitata, se non c’era la pagina faceva schifo lo stesso, ma almeno il testo era leggibile e non era una serie di trasferibili, o acetati della fotocompositrice, incollati storti. Pensavo che comunque si sarebbe distinto il prodotto più creativo, più elegante, più completo, da quello amatoriale o pseudo tale. Ovviamente mi sbagliavo, ero giovane, non avevo ancora capito che l’ago della bilancia sarebbe stato quell’ultima voce in fondo al preventivo, ovvero il “costo totale”.

    Il calo dei prezzi è iniziato inesorabilmente qualche anno dopo ma, dopo una pausa di assestamento intorno alla prima metà degli anni ’90, ha accelerato vertiginosamente diventando dapprima una discesa quasi incontrollabile per sfociare nel crollo totale. Eh, sì, perché oggi il cliente ha sempre “qualche nipote o cugino che con il computer fa cose incredibili e mica ha studiato, s’è comprato il computer e adesso fa pure i film”. Un po’ come se acquistando una macchina in tre mesi diventassi Schumacher, insomma.

    Un altro elemento che ha contribuito all’erosione dell’utile, e in più ha dato il colpo di grazia alle velleità creativo-comunicative, è la disponibilità di clipart, di immagini gratuite o quasi, assommate alle caratteristiche dei computer delle ultime generazioni, ovvero in grado di incrociare pezzi tra un programma e l’altro e far dire al cliente di turno “guardi, il lavoro gliel’ho praticamente preparato io, lei mi mette a posto un po’ le cose e siamo pronti per stampare”. Ma sì, che le frega de RGB, CMYK, margini, fotografie a 72 dpi a tutta pagina, caratteri monospaziali truetype, che je frega de quello che devi di’ e come lo sta a di’, ma, soprattutto, perché c’ha messo la foto de quel ragno in copertina? Ah, è suo figlio. C’aveva ‘na faccia conosciuta…

    Insomma, l’importante è che costi poco. Sia in termini di progettualità che di risorse: quindi niente carte pregiate, niente effetti di stampa o d’allestimento (lucidature, verniciature, plastificazioni, goffrature ecc,), niente fotografie o illustrazioni da pagare a parte. Che, ovviamente, non significano automaticamente aumento della bellezza o dell’intelligenza primitiva del prodotto, anzi, spesso rappresentano solo un involucro dorato e luccicante dietro al quale si cela il vuoto istituzionale, ma che è fatto ad arte per arraffare qualche occhio distratto.

    Ma in questi casi ci si pone la seguente domanda: ho fatto una cosa bellissima (non è che capiti spesso, ora non voglio dire che ogni cosa che faccio sia geniale, per carità, ci sono cose che escono bene e altre meno), siamo sicuri di volerla vendere a questo che me paga du’ euro, me chiederà de cambiarla perchè non sa nemmeno de che stiamo a parla’ e alla fine manco te dirà grazie?

    Spesso la risposta è no. Quindi tradisci il tuo cliente, per certi versi. E anche questo, almeno in parte, non è un comportamento scorretto?

    Ovviamente non si pone il problema se il cliente si affida allo studio dal grande nome, quello sulla bocca di tutti. Allora sono pronti a pagare qualunque cifra senza nemmeno mettersi a discutere, qualunque sia il layout presentato. Con questo non voglio dire che la grande agenzia faccia cose brutte (non solo, almeno), però posso pure dire che la grande agenzia destina le risorse migliori ai progetti migliori, e se in ballo c’è la multinazionale delle telecomunicazioni, è difficile che alla piccola catena regionale di negozi di cellulari vengano dedicate le stesse attenzioni. Del resto, gli stagisti, cosa ci stanno a fare?

    Lavorare solo per i clienti con i quali il confronto è costruttivo è difficile, perché non se ne trovano molti e spesso, loro da soli, non riescono a coprire il budget per l’umana sussistenza. Per cui l’unica soluzione è lavorare comunque o smettere. Cosa per la quale bisogna essere attrezzati.

    Certo non si può pensare di far crescere il cliente, primo perché i contatti sono sporadici, sono a termine, sono una volta ogni tanto nella maggior parte dei casi, mentre ci vorrebbe un catechismo quotidiano, secondo perché comunque nella maggior parte dei casi partono da due presupposti gravi: uno, il fatto che ti debbano dare dei soldi per un motivo che a loro non è ancora ben chiaro li dispone male nei confronti del “creativo”; due, la caratteristica di essere completamente avulsi da un mondo che non comprendono e che, in due giorni, vogliono fare proprio per timore di essere fregati. Per cui fino a ieri quando c’era la pubblicità cambiavano canale, oggi guardano ogni spot (ma può essere una pagina, un sito, una brochure, qualunque cosa stiano per far realizzare dall’agenzia – figo, ti chiamano comunque “agenzia” e poi ti vogliono pagare come se fossi un lavavetri) pensando di comprendere tutto. Ma di comunicazione non verbale, di effetti scenici, visivi, recitativi, per attrarre lo spettatore, di comunicazione passiva non sanno nulla. Però so’ esperti.

    Il mese scorso dovevamo realizzare un sito per uno studio di commercialisti. Un paio di versioni, layout statici, bella presentazione, solita fanfara. Qualche giorno dopo il cliente ci chiama. Il problema è che le nostre pagine sono troppo piccole, il sito si perde in larghezza… Ti credo, è ottimizzato 800×600, lo stai vedendo su un monitor 24″ a tutto schermo. Guardi che più o meno so’ tutti così, a parte qualcuno che ottimizza a 1024 (noi ancora non lo facciamo spesso, ma nessuno ce lo vieta, solo che lui lo voleva ottimizzato praticamente a 2048!!!), è una questione di usabilità, di monitor in circolazione, di portatili, solite tralle, insomma. Dopo natale ci comunica che vuole comunque il sito largo (e vabbe’, s’incazzeranno le contabilità che si interfacciano al vostro sistema) e che aveva dato un’occhiata ai siti che sono sul web (come se fossero qualche decina) e, da quel momento, ce ne parlava in stile accademico, come a dispensare perline colorate a una tribù africana dell’inizio secolo scorso. Ovviamente, lui, “navigava” su web da meno di due mesi, ma aveva visto un po’ di siti, sicuramente più di noi che lo facciamo per passione prima e per mestiere poi, e che online abbiamo iniziato ad andarci quando il modem era a vapore.

    Perché poi, alla fine, questa è una delle cose che mi (ci? Sì, c’è qualcun’altro, sicuramente) fregano, ovvero fare questo lavoro principalmente per passione, per provare a tirare fuori cose almeno carine, al punto di farsene una malattia se non viene l’idea giusta anche se fosse “solo” per il banco di ortofrutta all’angolo. Sarebbe più facile copiare qualche marchio da una rivista americana, cambiare il colore, venti minuti e il gioco è fatto.

    L’alternativa è mettersi a fare l’artista. Tanto, visti i chiari di luna, alla fame ci stiamo abituando 😀

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