La scorsa domenica ho incontrato Nick Hornby, per strada alle nove di mattina, e mi ha detto "ccciao!!!" senza che io l’avessi riconosciuto. Ho pensato che fosse un pazzo inglese un pò ubriaco dalla sera prima..
Lo so, credo lo amiate tutti. E anche io, non vi preoccupate. Solo che il personaggio è singolare, e meritava un approfondimento… Ecco qui di seguito l’articolo che oggi è uscito su Nòva24.
C’è una signora italiana che mi ha detto: “Lei ha proprio la faccia da Facebook”, risponde Nick Hornby ad una scrittrice che gli domanda del suo rapporto con le tecnologie. “Personalmente – continua lo scrittore inglese forse più conosciuto al mondo – non ho alcuna intenzione di iscrivermici, né di occuparmi di internet. Per fortuna ho avuto successo nel ’92, quando ancora questo mondo era agli albori, e visto che non ho necessità di farmi conoscere, sto ben lontano dai blog…. “ Pausa. “Le dirò di più – continua Nick con un volto a metà tra l’addormentato e il sornione – A me questo mondo virtuale fa un po’ paura. Mi farebbe paura cominciare a scrivere su internet…”.
Sono le dieci e trenta di una domenica mattina, a Matera, e in isolato ex convento in cima alla città dei Sassi una cinquantina di ragazze di tutte le età, ascoltano il “best seller author” Hornby (per chi non l’avesse letto, basta citare tre libri da cui sono stati tratti film di successo: Febbre a 90, Alta Fedeltà, About a Boy con Hugh Grant) dare lezione. Si dovrebbe parlare di “Writing a Young Adult Novel”, e invece succede che si parla di lui. Che è così difficile incontrare, e che così poco di sovente capita in Italia, in un parterre in cui toccarlo, farci una foto insieme, chiacchierarci liberamente non solo è possibile, ma sembra quasi gli faccia piacere…
E allora ecco fioccare le domande delle “ragazze” di Nick: sei uno
scrittore disciplinato? Ti piacciono gli autori di libri per ragazzi?
Quali sono i tuoi autori inglesi preferiti? Dove lavori? Scrivi prima
la sinossi del libro oppure ci entri direttamente, nella trama? Quali
sono le tue paure? Chi scrive vive di meno?
Hornby, che non è più un ragazzo (è nato il 17 aprile del ’57) e di
capelli non ne ha mai avuti un granché, strofina la mano sulla sua
giacca nera su pantalone nero su maglietta nera su scarpe nere,
incrocia le gambe, ticchetta con il ginocchio e poi, ogni volta,
riprende la parola. “La struttura del libro viaggia in una mail di
poche righe. Un incipit accattivante per l’editore, due frasi che diano
l’idea del senso del libro, e la descrizione di qualche personaggio.
Questo ho in testa quando scrivo, ma niente di più. La storia non è
scritta né preconfezionata: accade mentre procedo nella stesura, ed è
lì che non posso fermare il procedere delle vicende. Prima di scrivere,
però, ho ben in testa i personaggi: chi sono, come si comportano, come
si muovono… Non so se uno di loro morirà, o da dove vengono o cosa
faranno, ma conosco il loro aspetto, e le loro risposte alle emozioni…
Lo so, tutto questo è esattamente il contrario di quanto viene
insegnato all’interno dei corsi di scrittura creativa – corsi nei
quali, peraltro, non ho alcuna fiducia – ma è così… Sono in
controtendenza, certo, lo so, ma non me ne vergono… In famiglia siamo
in tanti a scrivere, e mio cognato, che a sua volta è uno scrittore di
successo, è il mio esatto opposto… Quando il The Guardian, che lo
scorso anno ha inaugurato una serie di articoli dal titolo “Come
scrivere”, ha pubblicato un suo articolo, l’ho letto con attenzione.
Mio cognato scriveva che soltanto un criminale inizierebbe un romanzo
senza conoscerne la fine. Ebbene, ho chiamato mio cognato e gli ho
detto, in tutta trasparenza: guarda che allora il pazzo ce l’hai in
famiglia, perché io non so assolutamente come si fa, a progettare un
libro.. Semplicemente, io so come arrivare in fondo, nella scrittura di
un libro. E già mi sembra una grande qualità..”. Ride.
L’autore di “Non buttiamoci giù” è un personaggio dei suoi libri.
Egoriferito fino a un certo punto, racconta che scrive nel suo studio,
in un quartiere a nord di Londra, che è dieci minuti da casa. Ci arriva
a piedi, la mattina, e ci sta dalle dieci fino alle sei. Troppo baccano
in casa, coi figli, e invece più concentrazione in un posto soltanto
suo, dedicato alla scrittura: “Se avessi la televisione a studio
sarebbe la fine, ma adesso anche con internet ci si distrae bene… Stare
otto ore davanti al computer non significa mica lavorare: ci sono così
tante belle cose da vedere, che alla fine mi perdo sempre in
stupidaggini. In teoria, dovrei lavorare dal lunedì al venerdì. Ma poi
succede che il lunedì, sei appena tornato dal fine settimana, e fai
fatica a riprendere il ritmo. Il martedì è già meglio, ma insomma, il
telefono, la promozione del libro precedente… non è mica semplice. Mi
sono dato la regola che 1000 parole al giorno ce la potrei fare, a
scriverle. Ma poi, se si fanno bene i conti, se ogni giorno stessi a
quei ritmi pubblicherei due libri all’anno… e invece ne faccio uno ogni
due anni… Non so, io scrivo quando voglio, ma soprattutto, scrivo
quando mi piace”.
Tra una questione e l’altra si scoprono anche aneddoti divertenti. Per
esempio, che il successo planetario di Horby, Alta Fedeltà, gli era
stato bocciato “dalla mia prima agente molto chic. Decise di puntare su
Febbre a 90 perché si capiva bene l’argomento, il calcio, mentre
l’altro, che era già pronto… boh, non le era ben chiaro il tema”.
Oppure che “la prima cosa che scrissi fu una novella, pagatami 25
dollari e mai pubblicata.. Poi cominciai a fare recensioni di musica, e
mi piacque moltissimo”.
Finita la conferenza, le donne gli si ri-accalcano addosso. Tutte,
preparatissime, hanno divorato i suoi libri, e tutte dunque lo sanno
che le donne descritte da Horby sono un po’ dei cliché…
Eppure nessuna gli chiede il perché. E la domanda, giornalista colpevole, rimane, sepolta, coi Sassi.