Siamo diventati noi lo schermo?

Egh, ovvero Enrico Ghezzi. Appena passato il suo festival Vento di Cinema, al quale purtroppo sono mancata, ma non senza dispiacere infinito e grande mal di testa, mi ha inviato qualche sua frase, scritta così, sul tema del cinema incompiuto – tema peraltro di questa edizione del suo festival -.

Stralcio.

"Siamo diventati noi (nel 3D) lo schermo. Noi siamo il buco verso cui si proietta il ‘mondo‘, noi per lo spazio di uno spettacolo giochiamo il ruolo impraticabile della ‘porta‘, dello spiraglio, della fessura che separa e unisce i mondi, dello spessore (irto da pensare e sentire, più facile da assumere suggere mangiare in pillole di spettacolo) dell’immagine-schermo".

Mi è sembrato un bello stralcio.

Ed ecco invece il testo completo…



Incompiuto cinema (2)                                                   
 

                   
Sette dimensioni in meno


                              N.B. – Nota (biografica) Bene (carmelo) 
e Nuota Bene. Nota per spiegare esibire nascondere la differenza indifferente
del testo che avete trovato in testa al programma, identico a quello
dell’anno scorso -e quasi resistente con esso, in un tessuto di fotogrammi
fissi e contigui, all’illusione del muoversi. Ombra parodistica del
negativo (in)dicibile; nulla da dire; troppo da ridire

Un fotogramma nero -e tenero- di nerezza
dolorosa  (la morte di lucianoemmer) che infrange un parabrezza
di idee rime entusiasmi corsi ricorsi. Impossibilità di scrivere
quel nero, di inscrivere quella (che non è una) scomparsa in altro
da non dire.


Così, scusandomi del surplace personale.           “La durata è la  continuazione
indefinita dell’esistere. – spiegazione: Dico indefinita, perché
non può mai essere determinata attraverso la stessa natura della cosa
esistente, e neanche della  causa efficiente, la quale pone, si,
necessariamente l’esistere della  cosa, ma  non lo toglie”.  
(Spinoza, ETICA, tr.it. Colli, Torino 1959, p.68).


Nel 1977 misi questa citazione di chiarezza
imperscrutabile in apertura di un testo per un numero semimonografico
del Piccolo Hans sul cinema: il titolo della mia cosa era: per quanto
tempo ancora. A furia di chiedermelo, e di chiederlo ai film e agli
spettatori  che non siamo, o addirittura a chi fa e quindi crede
di fare e certo rifà film, so ora che il tempo non c’è più perché
non c’è mai stato. Meglio: c’è già stato tutto, quindi non ci
fu mai. E’ tutto lì/qui, nello spazio saturo di passato e grondante
futuro che chiamiamo presente).
 
La dimensione del mancare, più e prima
delle dimensioni mancanti, accompagna e segna il cinema fin dai suoi
inizi proclamati e conclamati e già all’apparire dei primi sintomi.
Il poter ri-vedere e il poter rivedersi sembrano bastare al mercato
cinespettacolare come alle conferme scientifiche, per un pubblico nuovo
e sterminato proiettato insieme nella figura trinitaria dell’Autore/Attore/Spettatore.

Ma il cinema è anche il regno di
un’insoddisfazione permanente e intensissima.

In ogni istante del suo durare (che in
sé continua a sembrare aver compiuto automaticamente un lavoro
plurimillenario dell’immagine all’inseguimento della cosa vista)
si manifesta un rimpianto doppio: di non riuscire a stravedere fino
in fondo (o anche ’solo’ a stravedersi da sé) polverizzando o dissolvendo 
ogni ostruzione all’immagine,  e di sentire il venir meno costante
e pur desiderato delle ostruzioni  limitazioni  incompiutezze
stesse. Non si tratta di un contrasto tra visionarietà rivoluzionaria
e accettazione rassegnata o interessata delle regole del capitale spettacolo.
Né del conflitto tra autore e genere, o tra autore e produzione, o
tra montaggio e piano sequenza, o tra la ’soggettiva’ e il suo opposto.
La ridicolaggine appassionante delle argomentazioni ‘autoriali’
contro il passaggio dal muto al sonoro, ripensata oggi nel passaggio
già avvenuto e quasi’dimenticato’ al digitale (di quanta martellante
pubblicità ha ancora bisogno per farsi notare e ricordare), viene riproposta
e inghiottita dalla fellatio gigantesca del 3D che pare inghiottirci
infine (dopo una miriade di ’fughe in avanti’, di rides mirabolanti,
di inseguimenti vertiginosi) nel set/film, convocati in un circo onniavvolgente
a piste  illimitate, a saltare da ‘acrobot‘ in buchi vertiginosi,
subito obliando quel che anche lì, trinitari e jekllhyde e soli, (ci)
è già avvenuto.

Siamo diventati noi (nel 3D) lo schermo,
noi siamo il buco verso cui si proietta il ‘mondo‘, noi per lo spazio
di uno spettacolo giochiamo il ruolo impraticabile della ‘porta‘,
dello spiraglio, della fessura che separa e unisce i mondi, dello spessore
(irto da pensare e sentire, più facile da assumere suggere mangiare
in pillole di spettacolo) dell’immagine-schermo.

I piu’ accaniti navigatori filmici
attraverso l’inevitabilità del palindromo sono (stati) stanleykubrick
e guydebord, l’uno scoprendo nel 1968/2001 che i corridoi stellari
più lussureggianti e sfrenati portano con facilità inesorabile a un
sempiterno interno ’borghese’, l’uno sperimentando l’usura del
’riprendere’ ogni volta dall’inizio la corsa nel nastro di morbus.
(lynchcronenberg e raulruiz (con noi a Procida) sono i soli che rilanciano
il gioco, al prezzo di chiudere gli occhi per poter continuare il loro
combattimento amorodioso in sogno).

Ma, al solito, il rovesciamento della
situazione ha a che vedere (nel 3D ciò è chiarissimo, per quanto o
in quanto -ribadisco- in qualche modo già postumo e archiviato) con
logiche non nostre, con lampeggiamenti che cominciano a avvicinarsi
al misterioso e temibile numinoso incontro con le ‘immagini nostre‘
che sono ‘lì‘’ da prima di noi  (e tale incontro -secondo
il detto cristico nel vangelo apocrifo di Tommaso- sconvolgerà il piacere
finora sperimentato di ’riconoscerci‘ nelle nostre immagini).

Tale situazione catastrofica, dell’immagine
apocalittica e apofanica, è prefigurata nel suo esser già avvenuta
(oltre che da kafka benjamin hegel hoffmanstchandos funborges proustjoyce,
e dall’immortale/già morto avvenire a  memoria di paulvalery)
dal racconto del ritratto o del vero e proprio ritrarsi del ritratto
che troviamo nel capolavoro sconosciuto di Balzac
e nel Ritratto Ovale di Poe (con l’appendice del Dorian Gray
oscarwildiano). Il nulla da vedere del ’capolavoro’ -in cui quasi
nulla si vede perché troppo ha voluto vedere- propone e dissolve in
particolare la sola figura retorica e stato di immagine inventato e
proposto dalla fotografia e dal cinema, la sovrimpressione. Stato
in effetti ormai normale della cosiddetta vita, disastro dell’assortimento
di volontà e desiderio.

Intensificata e reiterata, la sovrimpressione
si ispessisce fino a un coacervo nero dove si perdono appunto le varie
immagini sovrimpresse.

Ma è troppo facile immaginare nello
spazio sovrimpresso, oltre l’insoddisfarsi più radicale, il fondo
di incompiutezza del cinema. Il punto di vista (point of view, pov,
acrostico vicinissimo al pow che risulta sia dal prigioniero
di guerra/prisoner of war che è l’occhio in ogni visione sia dal
power of words, il poesco ’potere delle parole’) è lì il culmine
dello sguardo artistico dell‘artista-pittore, negazione geniale e
assoluta di qualunque ’arte contemporanea’. Mentre è già 3D l’esito
dell’operare artistico del pittore del ritratto ovale, artista trionfante
e subito scomparente insieme con l’oggetto stesso ritratto (la donna
amata; e anche il racconto di balzac è complicato da gelosia e amore).
La vita passa mortalmente nel ritratto/opera, nello stesso ’momento
spaziale’ in cui si situa l’artista, diventato strumento inconsapevole
di una tecnica automatica (a Procida ci sarà victorerice, l’Erice
che con il sol del membrillo ha condensato vertiginosamente il
cortocircuito del ritrarre: ossessione palese e estrema, di Andy
Warhol, il primo a ‘sapere’ duchampianamente che si sta sempre ritraendo
il già ritratto).


Infine, quel che ci racconta questa teoria
di ritratti è il mutarsi della vita in morte vivente; in qualche modo,
più che l’incompiutezza del ritrarre filmico, il compiersi assoluto
che sta in esso. L’indifferenza sublime (emersoniana ma anche straubhuillettiana)
della luce che è tutta ’divina’ e terribile anche nella soavità
e viceversa (sta tutta qui la rivoluzione rosselliniana, impresa stratosferica
di reperire o far dischiudere la lettera/visione rubata che è il cinema,
nascosto in ogni istante, in ogni punto o bit di mondo; da cui un lavorìo
ossessivo dentro la trasparenza che ostruisce).
L’incompiuto risiede allora in quel
che si può intravedere o infrasentire in trasparenza nella meccanica
di questo stesso compiersi, che è sempre stato considerato e appreso
quale connaturato all’immagine.        
L’opposto della soggettiva (lo evocavo
sopra retoricamente) non è un’oggettiva, è semplicemente
sguardo di soggetti che non conosciamo (come quasi sempre infatti nel
cinema). Quel che di più potente e nascosto è nel cinema, la proliferazione
incontrollabile di registrazioni di scritture visioni, è -più che
nei segreti cifrati delle poetiche e dei poeti del cinema che amiamo-
nel’evidenza automatica della produzione di massa (hollywoodiana,
per dirlo troppo in breve) e dei generi (che proprio affollando gli
stereotipi e ripetendoli e moltiplicandoli permettono un’intensissima
risonanza mitica). Il che risulta lampante solo in casi rarissimi e
diversamente mitologici essi stessi (facciamo tre nomi soli: georgelucas,
jamescameron, terrymalick, tre modi di lottare con la pluralità ossessiva
del cinema, rilanciandola mimandola rallentandola con voci insieme personalissime
e anonime o di nessuno).


Incompiuto cinema. Negli espressionismi
e nelle poetiche individuali, nelle macchinazioni tecniche su scala
mondiale o interplanetaria, l’incompiuto e il non raggiunto è la
continua sovrimpressione (anche nell’immagine più vuota e ascetica)
dei miliardi di spettri che si convogliano in esso. Il già pensato
del cinema che ci oltrepassa da sempre (Fondane) è il ritrovarsi (disperato
indifferente appassionato) nel luogo del soggetto incredibleshrinkingman
celato in ogni singolo frame
o inquadratura o fotogramma. Vale a dire: nel riconoscersi tali, nel
sentire il (mito del) presente come il tratto di immortalità che ci
è dato; non più scrutare il déjàvu nella luce o nel buio, ma riconoscerci
noi stessi giàvisti.
 
(Georges Bataille, in un lettera del
1936 a Pierre Kaan: “per me è chiaro che è preferibile scambiare
più volte delle ombre per delle luci piuttosto che scambiare una sola
volta una luce per un’ombra”)
 
   – enrico ghezzi 


    rimpicciolimento 
e far sentire gli spettri sovrimpressi comdy.   Morte dellla
morte     deoliv