Pietro, e quella sera in cui la Rai ha fatto davvero servizio pubblico

Pietro, un uomo nel vento. Il monologo di Roberto Benigni

C’è una cosa che devo dire subito, per onestà: non sono solita scrivere recensioni. Non è il mio terreno abituale, non è un esercizio che pratico spesso, e non mi interessa particolarmente “valutare” i prodotti culturali come se fossero oggetti da classificare. Ma Pietro, lo spettacolo di Roberto Benigni andato in onda su Rai Uno, mi ha messa nella condizione di sentirmi in dovere di scriverne. Non per giudicarlo ma per ricordarlo a me stessa innanzitutto, e per restituire qualcosa di ciò che mi ha lasciato.

Ho guardato Pietro senza aspettative, e forse anche con una certa cautela. Raccontare una figura come l’apostolo Pietro, oggi, in prima serata, è un’operazione che può facilmente scivolare nella retorica o nel già detto. È successo l’opposto. Quello che ho visto non è stato il racconto di un santo, ma di un uomo. Un uomo fragile, impulsivo, spesso inadeguato. Un uomo.

Come dice Benigni ha spiegato bene «Pietro è proprio come noi… si arrabbia, agisce d’impulso, sbaglia, fraintende, piange, ride, si addormenta, soffre, gioisce e si lascia commuovere». È una frase che contiene l’intero senso dello spettacolo, e che mentre la ascolti ti riguarda, anche se non te lo aspettavi. Pietro è un essere umano che sbaglia, innanzitutto. E questo lo rende più umano.

Perché il Pietro che Benigni porta in scena non è quello delle statue o dei catechismi. È un uomo che ha paura, che tradisce nel momento più difficile, che crolla quando dovrebbe essere forte. Eppure resta. O meglio: cade e poi torna. Ed è proprio in questo movimento che ho sentito qualcosa di profondamente fragile e vicino, non religioso. Perché tutti, prima o poi, siamo stati convinti di essere pronti e abbiamo scoperto di non esserlo. Tutti abbiamo sbagliato proprio quando contava fare bene.

Si può cadere, anche quando si dovrebbe essere all’altezza. Che è diverso da sbagliare. E’ proprio diverso. Cadere è un fieri della nostra storia. Sbagliare, è solo un fatto.

E in questo racconto inedito e al tempo stesso autentico Benigni mi è sembrato ancora diverso da se stesso. Non trattenuto, ma concentrato. Come se avesse scelto di mettere la sua voce, la sua intelligenza e la sua notorietà completamente al servizio della storia. La comicità c’è, ma non invade mai. È un respiro, non una distrazione. Ogni parola sembra lì per accompagnare, non per conquistare.

Poi mi ha colpito un’altra cosa, escludendo la location eccezionale e impareggiabile. Mi ha colpita il tempo.
Pietro si prende il tempo che chiede allo spettatore. Non corre, non semplifica, non strizza l’occhio. In televisione, oggi, è quasi un atto di coraggio. Guardandolo, ho avuto la sensazione che qualcuno si fidasse finalmente di chi era dall’altra parte dello schermo. Che credesse ancora possibile fermarsi, ascoltare, pensare. In fondo, come dice Benigni, «le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano: si incontrano». Questo spettacolo è stato, per me, una specie d’incontro con il divino.

E alla fine, quello che mi resta impresso non è una lezione di fede né una dimostrazione di bravura. Mi resta una riflessione profonda sulla fragilità, sull’errore, e sopratutto sul perdono, anche di se stessi. Sul fatto che non sempre si viene scelti perché si è impeccabili, ma perché si è capaci di restare umani, anche quando si fallisce.

Ecco perché ho sentito il bisogno di scriverne. Perché Pietro non è stato solo un grande momento di televisione pubblica. È stato un gesto culturale raro, che ha avuto il coraggio di parlare di debolezza senza vergogna, di dubbio senza paura, di responsabilità senza retorica.

Non so se questo sia, formalmente, una recensione. So però che era giusto dirlo: Pietro è un prodotto eccezionale, e capita di rado che la televisione riesca a toccare così a fondo, con tanta semplicità, qualcosa che riguarda tutti.

PS. Assolutamente prima di Natale, o la notte di Natale, da vedere quando volete, gratis, su RaiPlay