Questa settimana consiglio Vogliamo anche le rose. Perché è un bel film, e perché andarlo a vedere significa poter far sì che le sale lo continuino a programmare, e che quindi sia visto anche da altre persone, oltre che noi.
Lo scorso 6 marzo avevo scritto questo articolo. Lo stesso giorno, su Il Giornale, avevo letto un pezzo che rivalutava la televisione degli anni Ottanta, con una grande foto del Drive In. Ovvio. Non sono d’accordo. Qui di seguito il pezzo sul film di Alina Marazzi.
I vent’anni che hanno cambiato la vita delle donne sono lontani. I Sessanta. I Settanta. Quando alla conferenza stampa di presentazione del suo film «Vogliamo anche le rose», Alina Marazzi viene interrogata circa la possibilità di farne un altro, sul ventennio successivo, la regista tace.
Sembra non poterlo dire, ma sembra che lo sappia. Che cosa ci hanno
lasciato gli anni Ottanta e Novanta, oltre che il Drive In e la coscia
televisiva? La domanda viene naturale, soprattutto dopo aver scrutato
per un’ora e mezza, in profondità, il passato prossimo femminile
italiano attraverso i diari privati di Anita, Teresa e Valentina. Tre
ragazze che hanno vissuto il ’68, in età diverse e città diverse, e che
la regista milanese rimescola in un bellissimo film. Grazie alle voci
di Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, a una
ricerca di archivio durata un anno, alla supervisione, ai testi della
scrittrice Silvia Ballestra e al sapiente montaggio di Ilaria Fraioli.
I diari. Forse le giovani di oggi sono meno spaventate di Anita? Che
scrive a Milano, nel 1967: «Paura di compiere 19 anni, di frequentare
l’università. Mi ribello all’idea del vestito bianco, dei parenti, del
matrimonio, del contratto legale, della cerimonia in chiesa. Come si fa
a vivere fuori dalle convenzioni sociali?».
Valentina, nella Roma del 1979: «Bisogna trovare un modello da seguire.
Ci guardiamo intorno e vediamo che non ce ne sono. Alcune prendono i
soldi dal marito. Qualche altra ha avuto sempre uomini importanti. E ci
sono forse le vere emancipate che passano da un uomo all’altro, ma con
caratteristiche di stabilità».
E Teresa, a Bari nel 1975, si trova di fronte al dilemma dell’aborto
clandestino (la legge fu approvata nel 1978, trent’anni fa). Un tema
che si pensava superato, e che invece, tragicamente, troviamo nelle
cronache dei quotidiani, tutt’oggi. Scrive Teresa: «Sono due mesi che
non scrivo. Ho provato tante volte ad aprire questa agenda. Mi mancava
il coraggio di confidare quello che temevo mi stesse accadendo. Adesso
sembra solo una storia da raccontare. La storia di un aborto. La storia
del mio aborto. Piango di nuovo, agenda rossa. Ho sofferto troppo e non
credo di aver meritato tanta sofferenza. Eppure era così normale per
me, prima, parlare di aborto. La maternità è una libera scelta. Mi ero
sempre sentita lontana da quella scelta. In verità non sono sicura di
aver scelto. Temo di non aver avuto scelta».
Il privato, in concomitanza con la festa dell’8 marzo, si fa pubblico.
A un secolo dalla triste vicenda che segnò la morte di 129 operaie
all’interno di una fabbrica di New York, quando festeggiare con le
mimose per alcune sembra scontato da dimenticarselo quasi, Alina
Marazzi presenta nei cinema (e anche alla tivù, il prossimo autunno,
sul satellite con Cult) «Vogliamo anche le rose». Titolo che riprende
il celebre slogan «Vogliamo il pane, ma anche le rose», con cui le
operaie tessili del Massachussets, a inizio Novecento, davano per
acquisito il pane, e chiedevano di più. Non circenses (giochi da
circo), ma poesia.
E poesia è la pellicola della Marazzi. Che dall’individuale passa al
collettivo, senza colori – se non quelli del passato – e ideologie, ma
con l’onestà intellettuale di una donna che esplora il nostro presente
globale, contraddittorio e conflittuale, con l’intenzione di offrire
uno spunto di riflessione su temi ancora parzialmente irrisolti, o
palesemente rimessi in discussione.
«Dovremmo discutere di procreazione assistita e di diritti delle coppie
di fatto –dice Alina –e invece siamo ancora qui, a parlare di aborto.
Forse abbiamo perso l’abitudine al dialogo tra noi. Forse siamo tutte
più chiuse nelle esigenze quotidiane, lasciamo i nostri figli a badanti
che non ci preoccupiamo nemmeno di conoscere fino in fondo. Ragazze
immigrate da Paesi che pronunciamo male e che sono le italiane di 40 o
50 anni fa. Io sono ottimista, e guardo avanti».
Una ricerca del passato che serve a tutti, per tracciare una linea
dello stato dell’arte. «Io cerco indizi» dice Alina Marazzi. Anche una
celebre poetessa russa, prima di lei, tra il 1917 e 1919 scrisse un
diario moscovita dal titolo «Indizi Terrestri». E nel 1924 una poesia,
che faceva così: «Come spostando pietre: geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore lungo tutto il corpo».