In un caotico meriggio milanese mi reco alla Triennale per rivisitare con calma la mostra AnniSettanta. L’entusiasmo iniziale del percorrerla, e l’enfasi dei giornali nel parlarne, è scemato.
Io, nonostante il mio fervore – e nostalgia, per esser stata troppo piccola, e per non averli vissuti appieno – mi son sgonfiata dell’aspettativa, e ho vissuto un’esperienza non mediaticamente condizionata.
Che dire. Oggi nell’atrio c’era una sorta di prova di concerto per i Vent’anni di Striscia la Notizia, con un gran baccano di gente e tapiri. La Triennale, per la prima volta, non mi ha fatto una bella impressione.
Troppo, di tutto. E poi, tutti a celebrare i vent’anni di quello, i cinquant’anni di quell’altro, i trent’anni di quest’altra cosa qui…
La nostalgia del passato è una cosa seria. Gli anni Settanta sono stati una cosa seria, e forse la mostra non lo era abbastanza, intasata di Fiorucci – con tutto il rispetto, bravo, ma negli Anni Settanta potremmo citare un’altra decina almeno di grandi designer e modaioli – e una sola piccola, povera, stanzetta dedicata alla letteratura. Bella l’installazione di Chiara Dynys. Brutto il lavoro appiccicaticcio su PierPaolo Pasolini, realizzato chissà perché proprio quest’anno 2007 da un artista sconosciuto, dentro la sala dedicata al rapporto tra arte e corpo.
Striscia la Notizia, invece, è una cosa seria? Io non conosco la risposta. Quelli della tivù mi direbbero certamente sì, che è una cosa seria. Lo credo forse anche io. Ma il mondo dell’arte, ad applicare al tapiro lo stesso processo utilizzato per la Cow Parade? Va bene. L’arte si sta democratizzando. Dal pop in poi, tutto è popolare, sempre di più. Ma questo meccanismo nel celebrare la televisione, dentro il piccolo mondo dell’arte, mi sembra quasi un copiare le facili lauree honoris causa a personaggi famosi. Le Università le danno per farsi pubblicità, più che per un valore reale.
Si chiama marketing. Con la cultura, non mi sembra che abbia molto a che fare…