“Non mangiate questa settimana, se no non vi entrano i vestiti” spiegava la responsabile casting dell’agenzia milanese. Era qualche anno fa, forse una decina. E già il diktat dell’esser magre a tutti i costi era arrivato non solo ad accettare modelle con la taglia 36. Ma anche a dir loro che per una settimana, meglio dieta totale: abiti succinti, e non si mangia. Questo racconta Anna Fabroni, fotografa, quando le si domanda della sua vita di ex modella, di ex anoressica, di giovane madre e oggi di docente all’interno di workshop in cui della malattia, se ne fa un’arte. Dove l’avrà trovata l’energia per viaggiare, abbandonare la provincia di Campobasso dove abitava per poi arrivare a Roma, e poi Milano, e altre città, per sfilare. E infine a Napoli, con il marito “noto comico della tivù” col quale non riusciva proprio a stare, a letto, e per questa incapacità, del corpo, di piacersi e di provare piacere. “Fare l’amore quando sei anoressica è come fare una sfilata in bikini pesando 200 chili. Un'impresa impossibile, a cui qualsiasi donna non potrebbe mai sottoporsi: umiliazione, senso di inadeguatezza, voglia di fuggire”.
relazione amorosa, andata in frantumi per non poter più parlare, tra
corpi. Per l’anoressia la madre, ancora oggi, le cucina cibi dietetici
e non parla. “Si documentava di nascosto sulla patologia, ma poi non
aveva il coraggio di discuterne. Le persone alle volte reagiscono ai
problemi col silenzio. Che poi è il comportamento che più fa male, a
una persona che vorrebbe essere notata. Ero sola, isolata,
nell’incapacità di godermi il mio metro e 80 di altezza – spiega –
anche perché, per il mio piccolo paese dove son cresciuta, Bojano, sono
tornata da separata, dopo aver vissuto a Napoli. Per loro sono sempre
la ragazzina da 110 chili. Il fatto di averli persi sembra non aver
cambiato granché”.
Già, 110 chili di cui 60 volati via nel giro di un anno, ancora molto
piccola, sotto i 18 anni: “quando sei grassa nessuno ti nota. Più
diventi magra e più ti vedono. Più scompari, e più, in questa società,
sei appetita”. Una vita a centellinare nutrimento, e tutti di
vorrebbero mangiare. Scopertamente dichiarata la sua passata malattia
che non passa mai, del tutto, perché col cibo sempre si ha a che fare,
dopo aver scoperto la fotografia ha raccolto i lavori migliori in un
libro dall’esplicito titolo “Costole” (2004). E da allora, “è stato
meglio”. Lei stessa scrive di alcune immagini in cui gli occhi “c’è da
preoccuparsi quando gli occhi, all’interno del volto, diventano molto
grandi”. Sottinteso: vuol dire che sei malata, che non mangi a
sufficienza. E tuttavia, dopo aver scoperto che l’obiettivo fotografico
restituiva un ritratto più onesto, più reale di quanto non facesse lo
specchio di casa “nel quale mi sentivo sempre grassa, brutta,
indesiderabile”, la macchina fotografica non solo è diventata una
compagna di vita, ma anche uno strumento attraverso il quale parlare
con gli altri.
Primo maestro di fotografia Francesco Morgillo, che 8 anni fa, dopo un
servizio fotografico che la ritraeva come modella, mise in mano ad Anna
l’obiettivo e le chiese di provare da sé. La prima cosa che pensò la
ragazza, oggi poco più che trentenne, fu quella di puntare l’obiettivo
ancora una volta addosso a sé, ma in un modo diverso da come avrebbe
fatto un fotografo professionista del mondo della moda. Dice Anna:
“utilizzai la macchina quasi fosse un pezzo di ricerca al femminile, e
il risultato fu sorprendente: mi sentivo più bella a fotografarmi da
me, come se finalmente non dovessi preoccuparmi del giudizio degli
altri, come se potessi finalmente ritrarre me stessa, e non come gli
altri mi avrebbero voluta, o mi rappresentavano, nei servizi di moda”.
“Dopo aver guardato ai risultati – spiega in un’intervista condotta via
Skype – e a come il mio corpo fosse, nella realtà, una volta fissato
sullo schermo di una digitale o sviluppato su carta, rimasi stupefatta.
Forse avrei potuto anche riprendere un poco di peso?”. Da quel giorno,
quando c’erano problemi, quando non mi piacevo più, “utilizzavo
l’obiettivo per riacquistare – gioco di parole – obiettività. Ovvero la
capacità di guardare a me stessa da fuori, senza farmi compromettere
all’interno di una visione che in troppe abbiamo, preoccupata della
perfezione”. Per Anna Fabroni utilizzare la macchina fotografica è come
andare dallo psicologo. E non è un caso che il professor Stefano
Ferrari, specializzato in “Arte e Psicologia” e segretario
dell’International Association for Art and Psychology – Sezione di
Bologna-, dopo aver visto il libro l’abbia chiamata.
“Mi ha messo di fronte ad altre persone, nella condivisione delle
problematiche legate all’autorappresentazione del corpo. E devo
ammettere che vedere come gli altri si fotografano, quello che hanno il
coraggio o non il coraggio di fare mi ha dato anche maggior forza. In
fondo – spiega Anna – ora sono io ad invitarli ad entrare più in
profondità, ad affilare le armi contro la malattia, a superare la paura
del nudo, per esempio, che è anch’esso un modo per guardarsi dentro”.
Cinque anni dopo la morte del padre, Anna, d’un tratto, ha deciso di
abbandonare la sua amatissima figura, e di salutarlo a modo suo,
attraverso un rito che soltanto lui avrebbe potuto capire: “quando ero
a Roma e soffrivo di anoressia, mio padre mi supplicava di mettere
sotto i denti qualcosa, qualsiasi cosa. Mi pregava di mangiare e poi al
limite anche di vomitare, purché restasse anche una briciola, in fondo
allo stomaco. Il rapporto tra di noi era viscerale, e quando, a
distanza dalla sua scomparsa, ho deciso di salutarlo in modo
definitivo, sempre attraverso la fotografia ho fatto”. Pausa. “Ecco, mi
spiace dirlo così, ma in quel momento, nel momento in cui l’ho
definitivamente abbandonato, penso di esser guarita”.
Anna, un giorno, è entrata nella stanza da letto del padre, che la
madre aveva lasciato intonsa nonostante fossero passati anni dalla
morte. Tolse dagli appendini tutte le cravatte e i di lui abiti, e li
indossò sulle sue quattro ossa malate. Si fotografò con indosso tutto
il peso delle stoffe di un ex impiegato di banca, il più amato della
storia, si fotografò e poi si liberò di tutto.
Un poco, riprese a mangiare.