Ieri sera, alla Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte ho avuto il piacere di presentare Studio Illegale, il libro, insieme a Chicca Gagliardo e all'autore, che non si nasconde più dietro le spoglie di Duchesne ma si è svelato a tutti noi come Federico Baccomo.
Ebbene, come la lettura del libro stesso, anche l'incontro con Federico e il suo pubblico è stato particolare. L'autore ha 30 anni ed è una persona che ha rinunciato ad alcune cose, per guadagnarne delle altre che non sono direttamente "monetizzabili". Il suo pubblico aveva letto il libro, era attento, ha fatto molte domande, ha chiesto parecchi autografi.
Dalla Marsilio dicono 15mila copie. Ebbene, speriamo sempre di più. Nel frattempo allego l'articolo-recensione scritta qualche tempo fa su Nòva24 e saluto caramente costei per i 2-3 minuti che ci ha impiegato a trovarmi e scrivermi.
Care dimissioni, unica salvezza d’integrità morale. Care dimissioni, in totale controtendenza rispetto alla crisi, unica opportunità di riscatto nei confronti di un mondo che tutto usa e poi getta via. Care dimissioni: ma perché l’autore del libro “Studio Illegale” – Duchesne è il soprannome – non ci rivela la sua reale identità se poi sul posto di lavoro tutti l’avran riconosciuto, e se il suo blog, che esiste da molto più tempo del libro, è il più gettonato del “settore”?
Colpa delle dimissioni, appunto. Delle dimissioni, e del coraggio.
Crediamo, colpa di una mentalità. Succede in Italia che se un giovane intelligente e brillante abbandona un posto di lavoro a causa di un’altra offerta economica, superiore alla precedente, è tutto a posto: “Tutti sono necessari, nessuno è indispensabile”.
Se invece lo stesso giovane, pur mantenendo fede agli accordi di riservatezza che lo legano alla società nella quale opera, ha un suo luogo del cuore e della mente, in cui critica in modo bonario – per necessità interiore, per lealtà, per trasparenza, per necessità creativa – il proprio mondo professionale di riferimento, è malvisto: “Quelli che vanno ai convegni e che scrivono troppo non c’hanno voglia di lavorare e sparlano tutto il tempo”. E infatti, in Italia, a parecchi dipendenti non è concesso un blog personale.
La situazione peggiore, tuttavia, si presenta nel momento in cui il giovane talentuoso definisce che in quell’ambiente, lui, non ci vuole più stare. Non vuole essere infelice (“non sto molto bene”, scrive Duchesne), né rovinarsi definitivamente il tandem fegato-anima.
Ecco, quando il giovane talentuoso decide di dare le dimissioni senza saper poi che fare, allora per i colleghi lui è scemo. “Quello lì non ha la testa sulle spalle, crede di essere al cinema e di recitare a Wall Street”. E via così, a dargli addosso.
Alcuni lettori, leggendo, condivideranno la tesi del titolare dello “Studio Illegale”: “Vai caro, vai: ma dove vai?”. Lo stesso capo che il venerdì sera, pur di non tardare ad una cena nel ristorante inn di Santa Margherita, abbandona i collaboratori nel pieno di una trattativa, per poi farli lavorare la settimana successiva, tutte le notti…
Altri lettori, invece, ricorderanno quante volte – in occasione di riunioni inutili, di capi idioti, di colleghi insidiosi e falsi, di frasi accidiose, di invidie, di piccoli e grandi ingiustizie - anche loro hanno pensato di dimettersi. Giusto per l’estetica del gesto, giusto per mettergliela in “quel posto” allo stupido capo. Per dimostrare a tutti che io “a me non mi tratta nessuno così, non vi dovevate permettere, capito?”.
E’ stato un pensiero. Poi è passato. Sorpassato dal senso del dovere, e dall’imperativo categorico, dalla sempiterna forza del realistico “tengo famiglia”. E tuttavia, leggendo l’autobiografico “Studio Illegale” (Marsilio Editore, Collana X, 17 Euro) – nonché piccolo caso editoriale perché trainato, nel suo successo, da internet – ci si domanda se esistano, per i giovani, altre modalità per vivere la professione. Un’alternativa al “sono un professionista di successo e lavoro 14 ore al giorno” e “sono un precario e non lavoro per nulla”. Una via d’uscita al “tutto o niente”, e soprattutto un modo per non dover recitare una parte, ma essere se stessi, e dire. Almeno, per quando possibile: dire ogni tanto quello che davvero si pensa, comportandosi in modo semplice, senza dover far per forza di tutto, un commercio.
Questo chiedono le giovani generazioni di professionisti cum lode. Il trentenne Andrea Campi, avvocato d’affari – come si definisce affinché nel tempo libero non gli vengano inflitte tristi litanie circa multe, affitti, litigi di famiglia e quant’altro – precario dalla partita Iva ma che non può neppure lamentarsi della relazione di “non assunzione” in quanto svolge prestigioso mestiere in centro Milano, con ufficio in viale centralissimo e trattamento luxury ad ogni trasferta effettuata, ebbene il Campi decide di dimettersi. Abbandona lo studio Flaker Grunthurst and Kropper e anche il suo “valore di mercato”, perché se esci dal mondo del lavoro poi, per reiserirti, è difficile dimostrare quanto eri importante per l’azienda precedente. Andrea Campi, però, o se vogliamo l’autobiografico Duchesne, al “valore di mercato” predilige il “credere in valori”.
Se ne va soprattutto perché capisce che se la parola fiducia, sul lavoro, perde di senso appena voltato l’angolo, lui stesso, nella propria vita, non potrà mai credere davvero in nessuno. Per questo decide di licenziarsi. Per continuare a preservare i valori che l’hanno cresciuto, in una Milano che tutto sommato, negativa non è.