Stasera, alle 20.30, allo Spazio Oberdan di Milano gli amanti dell'arte e del cinema di Elisabetta Sgarbi e/o del cinema che si fa arte toutcourt potranno assistere a "Non chiederci la parola", il suo ultimo film, che sarà preceduto da un piccolo dibattito con il professor Giovanni Reale.
Riporto qui di seguito l'articolo che ho scritto in seguito alla visione del film, prima di Natale. Per i milanesi, un'occasione unica per assistere ad una magica pellicola. Un'opera d'arte di un'opera d'arte.
Musiche di Franco Battiato. E poi, Umberto Eco, Sebastiano Vassalli, Vittorio Sgarbi, Edward Carey e Giovanni Testori hanno scritto i testi che vengon letti dal più grande attore italiano, Toni Servillo. Per il suo ultimo film “Non chiederci la parola” Elisabetta Sgarbi ha dato vita a una vera commistione di mostri sacri della cultura italiana. E lo scorso 22 dicembre, a Ferrara (sua città natale), ha riunito questi insigni autori nel racconto, e poi nella proiezione, del grande complesso monumentale de “Il Gran teatro montano del Sacro Monte di Varallo”. Un luogo che è stata definito da San Carlo Borromeo una “nuova Gerusalemme”, il primo di una serie di sacri monti prealpini edificati in area lombardo-piemontese inseriti a partire dal 2003 nel “patrimonio dell’umanità” Unesco.
Di che cosa tratta la pellicola dell’autrice dall’anello rosso? Si parla di cristianità, di fede, di nascita e di arte tradotta in linguaggio cinematografico. Il film riprende in oltre 45 cappelle e 800 statue un capolavoro che ricapitola la storia della fede cristiana. E’ il racconto della vita di Gesù (Annunciazione, Arrivo dei Magi, Natività, Gesù al Tempio, La Strage degli innocenti etc etc) e il sacro Monte di Varallo, che sorse per volontà di Beato Bernardino Caimi alla fine del 1400, di ritorno dalla Terra Santa. Lì, in terre lombarde, volle ricreare in piccolo i luoghi della Palestina, e fece tanto che al progetto, decenni dopo si interessò anche San Carlo Borromeo, che diede nuovo impulso all’opera. Le 800 statue a cui si arriva dopo una poco faticosa salita sintetizzano la storia della fede cristiana. Si tratta di capolavori parlanti, anche se il titolo del film, “Non chiederci la parola”, sembra ammiccare ad un montaliano atteggiamento di silente sfida. Una figurante tra la folla sembra urlare “Cristo morirà”, ma in realtà è soltanto una nostra impressione. Di voci, nel film, c’è soltanto quella di Toni Servillo che legge i brani di Testori – bellissimi – e di Umberto Eco, anche. Quello dedicato all’”uomo col gozzo” è particolarmente illuminante, anche in vista di un nuovo anno, e della possibilità di nuove interpretazioni della vita che ci aspetta.
Scrive Eco, a proposito del mostro-male-diavolo-uomocolgozzo: “egli è nato come mostro e come mostro è stato condannato per l’eternità. La sua umiliazione è tanto diversa da quella del Cristo che egli sta umiliando?” si chiede Eco. E poi prosegue in una triste lezione di verità: “ E’ che gli umili sono razzisti e le rappresentazioni di ogni sacro monte sono concepite per gli umili, per cui il mondo deve essere diviso in bianco e nero, bene e male, come ancor oggi insegna lo sceneggiato televisivo”.
Ecco, questo bianco e nero “cadaverico”, come lo definisce Eco, sono capolavori di
Gaudenzio Ferrari, Tanzio da Varallo, Pier Francesco Mazzucchelli detto Morazzone, i Fiammenghini, Giovanni Wespin, detto il Tabacchetti.
Così Elisabetta Sgarbi spiega il suo film: “Dopo ‘Il pianto della statua’, il secondo tempo di un unico film sulla scultura sacra, a partire dal 1400 fino al 1700. E’ il ‘Gran Teatro Montano’ del Sacro Monte di Varallo. Lo popolano, cappella per cappella, folle che paiono pietrificate. Statue di ossa e carne, i cui gesti ‘tagliano l’aria, inesorabili’, per arrivare davanti a noi a dirci la loro storia e la loro straziata passione.”
E’ il secondo lavoro di una trilogia dedicata alla scultura sacra. Attraverso un utilizzo artistico e sapiente della cinepresa e delle tecniche cinematografiche, la Sgarbi restituisce vita e voce alle statue di Varallo, bellissime ma incapaci di parola.
I movimenti della telecamera rendono senso a colori spenti, regalano nuova vita a statue centenarie e al tempo stesso fissano la loro sacralità. La esorcizzano, la profanano, la stigmatizzano e la riportano infine nell’empireo della sacro. E tutto ciò, costruito da un occhio laico come quello della Sgarbi, è ancor più impressionante, perché in realtà di cinema religioso si potrebbe parlare.
In questo processo di umanizzazione dei Santi, primo tra tutti il Cristo, che non è blasfemo ma esplicativo, e delicatamente attento all’emotività delle statue-persone riprese, anche Maria e l’Arcangelo Gabriele diventano reali. Solo per un attimo, però. Giusto il tempo di farsi vedere a noi e poi rifissarsi in solitudine su quel Monte di Varallo, e tornare al passato che li ha posseduti, riacquistando quell’aura di intelligibilità che sempre hanno avuto, e che avrebbero continuato ad avere se non fosse stato regalato loro il movimento, e così una nuova nascita, in un certo senso.
Le luci e le ombre – Elisabetta Sgarbi stessa ha parlato di aver pensato al Caravaggio durante le riprese – i buoni e i cattivi sarebbero fissamente uguali, se non ci fosse una narratrice – anch’ella appassionata del dritto e del rovescio della medaglia, e degli antipodi, e dei contrari, degli opposti e delle simmetrie asimmetriche – a crearne le distinzioni. Laicamente, il demonio è interessante. Ma la nascita del Cristo, la sua passione e la sua morte, anche grazie ad un direttore della fotografia come Daniele Baldacci, rimangono avvenimenti pieni di fascino. Come ha detto Franco Battiato, “credere in Dio, non è uno spot”. E tuttavia, anche se crediamo che non creda, la Sgarbi, con le statue, ci parla.