16 marzo 1978. Sono passati 30 anni dal rapimento di Aldo Moro. Alcuni protagonisti dell’epoca ritornano sul palcoscenico, nostro malgrado. Altri, chi già c’era ma non aveva diritto di parola, semplicemente hanno continuato ad osservare le danze, rileggendo frasi di chi aveva già scritto, riascoltando trasmissioni di chi aveva già trasmesso.
Mentre l’informazione celebra se stessa, a 30 anni di distanza molte persone del mondo della cultura e dell’innovazione (autori, artisti, scrittori, registi, creativi della pubblicità e della comunicazione, imprenditori, architetti, manager) da bambini o adolescenti che erano, si sono fatti adulti.
Luca Beatrice, critico d’arte tra i più autorevoli, ci ha proposto di domandare a chi c’era – ma non viene mai interpellato su temi centrali della nostra storia – dove si trovasse quella mattina in cui rapirono Aldo Moro. Abbiamo accolto la sua idea e utilizzato strumenti come internet ed sms, per raccogliere le testimonianze di pochi tra i tanti che nel 1978 erano “piccoli” o “adolescenti”, e che con il caso Moro vivevano il primo precoce confronto con la cronaca, la politica, il mondo degli adulti.
Riportiamo qui di seguito la memoria di una ferita collettiva: semplicemente, le storie e i luoghi, delle persone che ci hanno voluto rispondere.
Paola Bonomo, direttore marketing di Ebay, nel marzo del 1978 faceva la quarta elementare: Mia madre era stata ricoverata a Monza e operata per una trombosi cerebrale; stava quindi iniziando la fisioterapia e i lunghi mesi di rieducazione. Io e mio fratello minore, Alessandro avevamo lasciato la casa di Monza e abitavamo temporaneamente a Vicenza con la zia Maria, ex insegnante, e lo zio Nino, tecnico della moviola. Ricordo bene il salotto degli zii, le immagini del telegiornale e il volto di Aldo Moro nelle foto in bianco e nero. Quella primavera scoprii il cattolicesimo e il comunismo. Qualche tempo dopo il ritrovamento del cadavere, rivedemmo la mamma. Ci sembrò che avesse i capelli molto lunghi, ma in realtà portava una parrucca, perché i suoi erano stati tutti rasati a zero per l’operazione.
Paola Liberace, ricercatrice media, era a Formia (in provincia di Latina): il mio 16 marzo 1978 è un registratore Irradio, giallo, tondeggiante, nuovissimo, con dentro un nastro vergine da incidere; di fronte al microfono, un papà e la sua bimba, di due anni e mezzo, a cimentarsi in una canzoncina dello Zecchino d’Oro. E arrivati al ritornello, col caffè della Peppina che non si beve alla mattina, una voce in sottofondo, profonda e seria, da un televisore acceso; la voce della mamma che si inserisce per un istante, stridula e sconvolta; la voce del papà che tace di botto; la voce della bimba che resta da sola, sola con quella di Paolo Frajese, che al telegiornale racconta del sequestro”. Frequentava invece la quarta ginnasio a Napoli Alessandra Bardo, responsabile ufficio stampa di Terna: “Avvisata da mia madre che aveva sentito la radio, entrò una suora per darci la notizia. Ci mandarono a casa. E poi settimane davanti alla tv, sconvolti e increduli, come per disgrazia a uno di famiglia.
Ricorda poco Agostino Ghirardelli, project architect dello Studio Libeskind di Milano. Era a Genova: Avevo 5 anni e facevo l’asilo. Per la mia famiglia sono stati anni molto duri ma anche ricchi di sogni e progetti. A noi bambini non venne detto niente, ma qualcosa capivamo lo stesso. Si respirava un clima di tensione pieno di paure e contraddizioni”.
Ricorda poco Giovanna Amadasi, esperta d’arte. Lei era Milano: In casa avevamo la tivù. L’atmosfera era di tensione, e la paura era diffusa. Ma tutto sommato sembrava normale a noi, cresciuti a Milano negli anni Settanta.
Ricorda poco Laura Aquili, designer: Ero a Correggio, dai miei nonni. Avevo cinque anni e si parlava sempre di Moro, durante i pranzi e le cene, con grande preoccupazione. Non capivo bene cosa stesse succedendo ma ricordo – stranamente e benissimo – l’edizione speciale del Tg di Vespa che annunciava il ritrovamento in Via Caetani. Mi è affiorato esattamente identico quanto l’ho rivisto durante la mostra alla Triennale di Milano dedicata agli Anni Settanta”.
Ricorda poco anche Teresa Ciabatti, scrittrice e sceneggiatrice: Avevo tre anni, ero a Orbetello e dalla partecipazione emotiva dei miei credei che Aldo Moro fosse mio zio.
Andrea Portante, direttore commerciale di Rai Trade, viveva a Bologna, frequentava il Liceo ed era già grande: Colpì il salto di qualità del terrorismo ai cui attacchi “normali” stavamo facendo l’abitudine. Anche il terribile professore di matematica, uno che interrogava al primo giorno di scuola, non fece lezione, e parlammo del fatto
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Riccardo Paternò Castello di Carfagna viveva, come oggi, ad Ivrea: La voce si era già sparsa a scuola. Facevo la seconda media. Qualcuno disse “hanno rapito Aldo Moro”. Nome vago, già sentito. Pareva una cosa grossa. Sull’autobus c’era meno gente del solito. Giunto a casa, mia madre mi salutò e mi chiese se avevo sentito. Voce greve, piena di significati inafferrabili. Risposi di sì ma non capivo perché questa volta fosse più importante. Gli adulti sono misteriosi. Mi lavai le mani e mi sedetti a tavola. La pastasciutta era buona come sempre”. Lo stesso distacco, dovuto forse alla distanza, sentiva Tamara Gregoretti. Oggi responsabile programmi di Fascino, scrive Vivevo a Londra da quasi due anni, e lavoravo all’Ansa. Da quella sede si guardava di più ai terroristi dell’Ira che alle Brigate Rosse.
Anna Puccio, consigliere d’amministrazione di Buongiorno Spa, era a Udine, alla Scuola Manzoni: Ero in terza media e occupavo il primo banco di fronte alla professoressa. Dopo l’inizio della lezione, il bidello chiamò fuori dalla stanza l’insegnante d’italiano, che rientrò in lacrime, annunciandoci il rapimento. Eravamo sgomenti, la prof disperata. Come lei, nella stessa Udine ma in prima Liceo, Cristina Nonino, imprenditrice: Alla notizia è iniziato un gran trambusto. Sono uscita in corridoio e cinque ragazzi, notoriamente di estrema sinistra esultavano alzando il braccio in segno di giubilo. Ricordo lo sgomento misto ad ansia e preoccupazione. Ho provato vera paura, quasi avessero annunciato l’inizio di una guerra. E un senso di insicurezza assoluta.
La città che faceva più paura, era forse Milano. Marco Gualtieri, fondatore di Ticketone, era in Corso Sempione, a scuola, e aveva 8 anni: Ci fecero uscire e le maestre ci accompagnarono in un giro dell’isolato. Sapevo di cosa si trattava perché mio padre, che aveva una società di consulenza, era stato più volte minacciato da Prima Linea. Avevano addirittura messo a soqquadro il suo ufficio qualche mese prima del caso Moro. Provai a parlare delle mie paure con i compagni. Ma non avevano il mio stesso vissuto, non capirono di cosa si stesse parlando….
A scappare dal capoluogo lombardo, sono stati in tanti. Andrea Lissoni, critico d’arte, andò a Varese con i suoi: Mi ero da poco trasferito e ho il ricordo di una città senza forma, se non quella dell’area entro cui mi muovevo quotidianamente. Ho il ricordo di una possibilità di paura sempre possibile, pronta a manifestarsi improvvisamente.
Scappato a Thiene, in provincia di Vicenza, Marco Zamperini, oggi Cto di ValueTeam, Ero al primo anno del liceo scientifico, già lontano da una Milano dove ogni giorno poteva succedere il finomondo. Ci rifugiammo nella quiete surreale della provincia veneta, e pensavamo di essere al sicuro. Il rapimento, invece, fece riaffiorare i fantasmi della violenza. Il giorno del ritrovamento del cadavere di Moro piangevo come una fontanella.
Non lontano da Zamperini, Antonio Riello, artista noto per le sue opere “ribelli”, studiava all’Università di Padova. Ero a Farmacia – scrive – ed ho saputo la notizia in un bar bevendo un caffè con i compagni di corso. Nella mia famiglia – liberali di vecchio stampo – la notizia fu una dolorosa, sgradita e minacciosa sorpresa. Ricordo una mia spaventata eccitazione: tutto sembrava potesse succedere. Tra i miei conoscenti commenti di paura e preoccupazione, ma purtroppo anche qualche commento di malcelata soddisfazione. E’ vero purtroppo.
Paolo Virzì, invece, ha in mente solo un grande dolore collettivo. Aveva 14 anni, frequentava la terza media, a Livorno, il giorno del rapimento: Mio padre era nel corpo dei carabinieri. Da tempo ci faceva racconti preoccupati, e poi accadde quello che accadde. Ero in classe, con i compagni, quando ad un tratto tutto si fermò. La città intera visse quei 55 giorni con ansia, dolore, preoccupazione, tristezza, apprensione. Nonostante Livorno fosse un luogo “rosso” per antonomasia, non sentii mai nessuno esprimere sentimenti diversi dalla partecipata costernazione.
Viveva vicino al lago della Duchessa, quello del comunicato numero 7 delle Br, Daniele Vicari. Frequentavo le scuole elementari a Collegiove, un paesino della provincia di Rieti a mille metri d’altezza. Furono giorni cupi, non si parlava d’altro. Ricordo che scrissi un tema teso e preoccupato proprio sul rapimento e la morte dei componenti della scorta. Ricordo che la tivù di casa, che veniva solitamente accesa solo la sera, o la domenica, rimase accesa praticamente giorno e notte, come per la vicenda di Vernicino. Ricordo molte altre cose. Soprattutto la sensazione di aver pensato per la prima volta che la politica dovesse essere una cosa molto seria se c’era qualcuno disposto persino ad uccidere per le proprie idee politiche.
Alessandro Germiniasi, titolare di Cogitanz, abitava in Brianza: Mio padre era un bancario di 35 anni, con due figli piccoli, addetto allo sportello. La mia famiglia liberale einaudiana era spaventata: prima le contestazioni generalizzate e degenerate dei movimenti studenteschi, poi il terrorismo (lotta armata per la rivoluzione + lotta armata per la controrivoluzione). Mia madre aveva paura. Sembra incredibile, ma la destabilizzazione dei privati cittadini allora esisteva, tant’è che era convintamene perseguita da più parti.
Intorno a Milano viveva anche Angelo Crespi, direttore de Il Domenicale, il settimanale culturale schierato a destra: “Sono di Busto Arsizio, ai tempi avevo 10 anni. Ero a scuola quando rapirono Moro: in classe se ne parlò in modo piuttosto allarmato, e la sensazione che ho è di un periodo triste, sebbene mio padre stesse iniziando una propria attività e quindi nella mia famiglia ci fosse un grande fermento e fiducia nel futuro. L’austerity mi sembrava un problema che non ci avrebbe toccato. Mio padre leggeva Il Giornale, e talvolta, di nascosto dall’edicolante si faceva dare Il Borghese.
Chi stava nella capitale sentì molto “da vicino” l’impatto del rapimento. Alessandro Cecchi Paone frequentava la seconda del Liceo Lucrezio Caro, non lontano da Via Fani: Ci riunimmo tutti in Aula Magna e seguimmo l’edizione speciale del Tg1 di Bruno Vespa. Fu il primo vero episodio di breaking news della televisione italiana. Le lezioni si fermarono e noi studenti, rimanemmo lì, a guardare insieme quanto accadeva: non posso dimenticare alcune frange di estrema sinistra quasi soddisfatte. Il giorno del ritrovamento del corpo andai a piedi a Ponte Milvio, vicino ad una storica sede del Pc. Le strade erano vuote. Roma era quasi spettrale.
Nella capitale abitava anche Cristiana Mastropietro, autrice tv: “Tornavo da scuola. Per strada tutti gridavano: “hanno rapito Aldo Moro”. Entrai di corsa nel negozio di mia madre e lei tirò giù la saracinesca, perché i fascisti stavano sprangando tutte le vetrine”. Tommaso Mottola, direttore del Festival di Capalbio Cinema, racconta: “Ero a Roma da un anno, e preparavo una performance con il mio gruppo di teatro sperimentale. I carabinieri mi avevano fermato la sera prima e tante sere prima di quella, in un’incalzante routine di controlli. Presto imparammo che se ospitavi un amico, dovevi denunciarlo”.
Ariel Mafai fu forse la più vicina al cuore della tragedia. Oggi Responsabile Relazioni Media del Comitato Expo 2015 di Milano, scrive: Avevo undici anni e Moro viveva in un quartiere vicino al mio. Andavo a scuola. Mi ricordo quando ritrovarono il corpo, il rumore degli elicotteri. Mia madre pensò seriamente di trasferirci all’estero. Ma poi restammo.
La madre di Maddalena Tronchetti Provera (titolare dell’agenzia di Eventi FourOne), invece, dalla provincia di Como fece sì “armi e bagagli”, per paura. Nei ricordi di Maddalena Ero a scuola, all’asilo, e ce l’ho stampato nella memoria quel momento. Mia mamma è venuta a prendere me e mio fratello prima della fine delle lezioni, e saliti in macchina, c’erano le valige. Ci disse che si andava in montagna, in Svizzera. Ovviamente non sapevamo che era una fuga anziché una settimana bianca non programmata. Lo scoprimmo solo dopo molti anni….