Rivoluzionari si nasce, come Luca Pignatelli

 
“Artisti si nasce. E io certo non l’ho deciso di esserlo. E’ sempre stato così, sin da piccolo, quando entravo nella stanza di mio padre – artista – mi ci rinchiudevo come se fosse già il mio mondo. Perché io non mi ci sono mai visto inquadrato all’interno di un percorso professionale classico. Sono anti istituzionale per natura. Rivoluzionario forse".

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Già. Luca Pignatelli, artista tipicamente milanese di classe ’62, è riconosciuto come autore di un realismo visionario che trova i suoi soggetti nella memoria. Una memoria collettiva, più che personale, fatta di oggetti di guerra, di pezzi di tessuti, di lettering del passato, di cose che la sua generazione non ha visto ma che appartengono alla precedente.

“Anche se la seconda guerra mondiale era passata da un pezzo quando sono nato, io l’ho sempre sentita vicina” spiega nel giardino del suo studio, in zona Corso Lodi. Zona una volta periferica e oggi semicentrale in cui l’artista ha dato vita, pezzo dopo pezzo, ad uno studio grande quanto una fondazione d’arte. Con pareti altissime, porte antiche e travi, metalli, soffitti in trasparenza di vetri, piani superiori ed enormi cantine, custodi dei giganti quadri di Pignatelli che, peraltro, sono quotati cifre considerevoli (gli esperti in materia dicon tra gli 80 e i 100 mila euro ciascuno). Camminando, l’artista può sentire il suono dei suoi passi, e l’eco della propria voce, il fruscio dei pensieri, scorrere, forse, insieme ai fantasmi in volo.

Perché Pignatelli ha la passione del passato, e se da una parte colleziona oggetti del passato, visita ininterrottamente mercatini, ricerca nel “second hand” il volto di una realtà che la società tende a dimenticare, e riesce a donare maestosità ed importanza a umile materia che altrimenti, semplicemente, rimarrebbe accatastata ed in disuso. Per esempio, su teloni d'epoca che coprivano i vagoni merci negli anni Trenta ha costruito cieli, aeroplani, mezzi pesanti e treni a vapore.

Alla fine degli anni novanta ha ricreato una magica New York, emersa dagli archivi cinematografici americani, paesaggi che ricordano calde e lontane atmosfere della grande crisi. Quasi come se oltre al periodo che fu, Pignatelli fosse alla ricerca dei fantasmi che popolano il presente. Come se Pignatelli, in qualche modo, fosse in grado di presagire, oltre che sentire, attraverso la pittura.

“Il mio libro preferito è Il soccombente di Thomas Bernhard” spiega. A metà tra il tragico e il malinconico, il libro tratta del fittizio rapporto tra il famoso pianista canadese Glenn Gould e due suoi giovani compagni di studio al Mozarteum di Salisburgo negli anni cinquanta. Sotto la guida di Vladimir Horowitz il trio studia musica e contemporaneamente sviluppa un rapporto di amicizia che si rivelerà drammatico per tutti e fatale per uno dei tre, il soccombente appunto.

Una storia triste, che apparentemente non c’entra molto con Pignatelli. “Eppure…” dice  “L’arte per me è un insieme di forma e pensiero. Una sintesi che lavora su un immaginario reale ed un insieme di pensieri completamente miei. I carri armati, i luoghi di vacanza, i sommergibili: tutto mi piaceva quando ero piccolo e tutto ciò ancora oggi mi appassiona”. Anche se non sono esattamente temi… allegri? “Ho sempre coltivato il mio bacino di solitudine. E ci sto bene dentro, mi trovo a mio agio. Come anche con i vestiti militari, con i materiali come una borraccia, uno zaino”. A partire dai suoi lavori sulle “Analogie” – riproduzioni del suo sterminato archivio in associazione di senso – fino a agli enormi ritratti scultorei mostrati nella personale presso la Galleria Poggiali e Forconi di Firenze – 20 grandi lavori inediti, con al centro immagini della tradizione greco-romana, classica ed ellenistica – Pignatelli ha espresso la maestosità della storia. Rispetto alla quale siamo tutti piccoli. Di fronte alla quale il nostro presente è così “light”.

“Non mi piacciono le domande sulla mia creatività – riprende – le trovo un po’ pretestuose. Mi sento più un tramite che un pensatore creativo. Mi piace ascoltare, assorbire, rielaborare. Ripeto i miei lavori perché non ho il terrore della ripetizione”.

E tuttavia, se un tema permane nella sua ricerca, ogni opera sembra unica. Proprio per l’utilizzo artistico del passato sulle sue tele di 10 metri per cinque fatte di tele di canapa cucite tra loro, pannelli industriali, coperture di cargo ferroviari, interrotti da cuciture doppie o da strappi ricuciti.

Le immagini dei suoi quadri vivono così su un "campo" fatto di dislivelli e sobbalzi, di trame interrotte e pianure di colore, perché oltre che sulla tela tali immagini respirano anche sopra e attraverso le nervature e gli strappi, le cuciture e la trama lenta della canapa. A metà tra la storia di ieri l’altro e il mito, in futuro saremo spettatori di sculture: “il mondo tridimensionale, il mettere insieme i pezzi, il molto grande molto piccolo. La tela è un territorio che delimita un’impressione”. La scultura, chissà.